Il nuovo stile del governo in carica non può giustificare i contenuti pesanti degli atti e delle affermazioni.
Un terzo dei giovani dai 18 ai 35 anni sono disoccupati, 8 su 10 dei nuovi contratti sono stipulati in una delle 46 forme di lavoro precario esistenti in Italia – oltre i 17 mila che solo in Sicilia prestano la propria opera in stage gratuiti. Al Sud lavorano 3 donne su 10, e nel 2010 ben 135mila giovani, di cui 18 mila laureati, sono emigrati per lavoro.
Lavoro precario significa non avere possibilità di fare famiglia o di aprire un mutuo per comprare una casa dai costi sempre più esorbitanti a causa della speculazione edilizia che consuma suolo e della totale mancanza di alloggi ad affitti popolari per giovani e coppie.
Ci si laurea tardi perché si lavora mentre si studia, o meglio si cerca un lavoretto mal pagato che sfrutta mano d’opera pagata anche 2 euro all’ora, nella totale assenza di risorse destinate al diritto allo studio che possa offrire sostegno al merito anche in presenza di redditi familiari bassi.
Si emigra per necessità, e quando si sceglie di non farlo è indispensabile il supporto della famiglia per sopperire alla assenza di servizi sociali, di asili, nidi, case di lungodegenza o di riposo per anziani – sempre più anziani e sempre più spesso inabili e lasciati a carico delle famiglie – in città sempre più grandi in cui per raggiungere il posto di lavoro si consumano anche 4 ore al giorno, tempo sottratto al riposo, alla cura dei figli, alla prevenzione della propria salute.
In un contesto grave come quello italiano, in cui i redditi medi sono tra i più bassi in Europa, ed in cui la crisi viene scaricata sulle spalle dei più deboli (lavoratori pubblici, pensionati, piccole e medie imprese), senza toccare gli interessi forti e le sacche di evasione, e senza fare investimenti che possano rilanciare l’occupazione, si continua a parlare della necessità di “crescita”: ma quale crescita è possibile senza reddito, senza sostegno alle nascite, senza contributi, in un sistema che precarizza e flessibilizza in maniera selvaggia il lavoro al punto di fare una battaglia per l’abrogazione dell’art. 18?
Toccare i princìpi e le poche certezze rimaste suona offensivo nonostante il bon ton del nostro nuovo premier: che dall’alto dei suoi beni può parlare di monotonia del posto fisso avendo un fantastico patrimonio alle spalle ed un lungo e sereno futuro avanti anche per i propri figli, casualmente ben sistemati – e vicini a mamma e papà come gli altri rappresentanti del governo Fornero e Severino, che avrebbero fatto meglio a tacere.
Al centro dell’agenda politica continuano ad esserci una serie di argomenti che hanno il sapore di “distrarre” dai veri problemi. L’art. 18 è uno di questi. Finora tutte le ipotesi di lavoro sono irricevibili, visto che perfino il triennio di sospensione potrebbe riproporsi all’infinito a seguito di
licenziamenti ripetuti. E nessuna certezza di occupazione dà, come non ne hanno dato gli incentivi all’industria che non hanno impedito licenziamenti in massa appena terminati. L’unico percorso sostenibile per il nostro paese è una moralizzazione dei costumi, il porre al centro dell’agenda politica la lotta al precariato, l’occupazione, gli investimenti in ricerca ed innovazione di prodotto, un tetto agli stipendi e pensioni milionarie pagati nel pubblico come nel privato, il rilancio della tutela ambientale e la lotta alle mafie nella gestione dei rifiuti e degli appalti pubblici. Questi sì che sarebbero temi che ci piacerebbe sentir uscire dai discorsi così forbiti del premier Monti!
Come UIL riteniamo che sia necessario predisporre una serie di mobilitazioni: e se qualcuno rispetto a ciò sventolasse lo spettro della Grecia, deve essere chiaro che la responsabilità attiene alle scelte di governo, e non alla “irresponsabilità” di cittadini sempre più vessati e tassati.
UIL RUA
Sonia Ostrica