Articolo di Giorgio Israel su Il Messaggero del 4 gennaio 2013
È facile dire che, per far ripartire il Paese, occorre rilanciare il sistema dell’istruzione e della ricerca scientifica. Purtroppo le agende elettorali non vanno molto oltre il proclama retorico, soprattutto in tema di ricerca scientifica. Proviamo a enunciare alcuni punti fermi suggeriti anche da recenti esperienze.
È invalsa l’abitudine di confondere la “ricerca” con l'”innovazione tecnologica”. È una confusione grave che svaluta il ruolo della ricerca di base e viene alimentata con il luogo comune degli scienziati che devono rendersi utili scendendo dalla “torre d’avorio”. Ci si può chiudere in una “torre d’avorio” anche confinandosi in visioni praticone, dimenticando che la rivoluzione tecnologica che ha cambiato il volto del mondo è il frutto di una visione che ha conferito un ruolo trainante al pensiero scientifico teorico. Come disse il Nobel Albert Szent-Gyorgyi (uno scienziato assai “concreto”, cui dobbiamo la vitamina C), «scoprire consiste nel vedere ciò che tutti hanno visto e nel pensare ciò che nessuno ha pensato». Senza scienza di base non si va da nessuna parte. I recenti esperimenti sui neutrini avevano senso e portata perché avevano come sfondo la teoria della relatività e il modello standard. Purtroppo pulpiti autorevoli si concedono il vezzo di discriminare le ricerche con il criterio “a che serve?”. Chi pensi di considerare la ricerca di base come un inutile orpello prospetta un declino del Paese a mero utilizzatore delle scoperte altrui.
La ricerca di base va sostenuta senza pretendere ricadute tecnologiche immediate. È necessario pensare alla formazione di persone capaci di stabilire un rapporto diretto con le aziende e che completino la preparazione universitaria con stage aziendali. Ma sarebbe irresponsabile pensare che questo possa esaurire la formazione dei ricercatori scientifici. Purtroppo si sente parlare di un’università interamente funzionalizzata alle esigenze delle imprese del territorio, una sorta di superliceo per la formazione di quadri aziendali. Qualcuno crede davvero che le grandi università statunitensi vivano in dipendenza delle imprese del territorio? Oltretutto, in una condizione italiana che vede la prevalenza della piccola e media impresa un simile indirizzo rischia di confinare la ricerca scientifica a tematiche marginali.
Viene quindi la questione dei finanziamenti. Su questo occorre essere chiari: se si vuole una ricerca scientifica degna di un Paese avanzato occorre spendere e molto. Non è qui che occorre tagliare. Invece, alcune “agende” elettorali seguono una linea da “botte piena e moglie ubriaca”: lasciano intendere che si dovrà tagliare ancora e parlano di rilancio della ricerca scientifica. Veniamo da un ennesimo taglio alle università che potrebbe costringerne diverse a chiudere bottega. Forse qualcuno s’illude che la ricerca possa reggersi su qualche punta isolata, con un Cnr ridotto a ectoplasma? Inoltre, non è serio far credere che gli investimenti nella ricerca possano essere incrementati solo sul fronte privato e rafforzando il legame tra imprese e università: negli Usa i finanziamenti federali per la ricerca, per quanto siano stati ridotti negli ultimi anni, hanno livelli imponenti a noi sconosciuti.
Certo, si dice giustamente che finora i quattrini sono stati spesi male e che occorre valutare le università e i centri di ricerca. Figuriamoci se non si può essere d’accordo su questo, nei giorni in cui è mancata una grande scienziata italiana, Rita Levi Montalcini, che ha conseguito le sue scoperte all’estero perché in Italia si preferì ridare credito anziché alla scuola del suo maestro, il grande Giuseppe Levi, a un mediocre personaggio che aveva il solo “merito” di esser stato protagonista del razzismo di Stato fascista. Si valuti quindi, ma il sistema di valutazione deve essere sensato e deve premiare il merito. Invece, siamo nel pieno di un’esperienza disastrosa promossa dall’Anvur (Agenzia di valutazione dell’università e della ricerca). Nel corso dell’approvazione della riforma universitaria le forze politiche avevano promesso: niente valutazioni dirigiste a monte, bensì valutazioni a valle. Agite liberamente e sarete valutati ex post, e quindi premiati o sanzionati in base ai risultati. Inoltre, niente burocrazia: la valutazione deve svolgersi come un severo confronto tra competenti e non affidato a enti sottratti a ogni controllo. È accaduto il contrario. Un gruppo ristretto di persone di nomina politica ha deciso come valutare a priori chi poteva far parte delle commissioni di concorso e chi poteva concorrere, con parametri statistici così poco credibili da dover essere cambiati continuamente in corso d’opera e aver prodotto umilianti ingiustizie, tali da determinare ricorsi giudiziari. Come ha osservato Sabino Cassese, non solo l’Anvur ha ucciso la valutazione, confondendola con una strampalata misurazione e burocratizzandola, ma ha ucciso sé stessa consegnando l’ultima parola ai giudici amministrativi. La “bibliometria di Stato” introdotta in Italia non ha uguali nel mondo, è stata criticata all’estero e persino derisa. Ma né queste critiche né quelle avanzate da autorevoli istituzioni italiane sono state prese in considerazione, a riprova che il sistema della ricerca è sotto l’egida di un dirigismo tecnocratico privo di sensibilità culturale e democratica.
Vi è infine un aspetto psicologico tutt’altro che secondario. Da anni il mondo della ricerca e dell’università è depresso da continue “bastonate” sproporzionate rispetto agli errori e alle colpe. Quando l’Anvur ha informato che solo il 5% dei professori universitari non ha pubblicato negli ultimi anni, qualcuno ha strepitato che non deve esistere neanche un nullafacente, sognando mondi perfetti che non esistono, a cominciare dal proprio. Nella ricerca e nell’università esistono tante forze valide. Sarebbe un errore irreparabile, invece di restituire a questo mondo il senso di un ruolo culturale e sociale, continuare a “bastonarlo” con tagli, valutazioni sconsiderate, prescrizioni burocratiche, dirigismi soffocanti e occhiuta sfiducia. Cosa di buono può venire da tutto questo?